Fino all’inizio del secolo scorso il Faro di Vieste, il nostro caro Faro, andava a olio. Si, avete capito bene, per svolgere la sua funzione di segnalamento e per illuminare la grande lampada centrale, veniva bruciato olio di oliva. Se fosse un Extra-vergine oppure olio di bassa qualita', non ve lo so dire e non me lo ha saputo dire neanche il diretto conoscitore di questa storia che vi tramando. Poi un bel giorno del 1909, in piena Belle Epoque, le autorita' competenti decisero che l’alimentazione del Faro doveva essere aggiornata con i tempi e cosi' il vecchio sistema fu sostituito. Venne bandita una gara per la vendita dei tre grandi orci di robusta terracotta, che volgarmente venivano chiamati “sciarrun” e che fungevano da deposito dell’olio. Due baldi giovanotti, che avevano in animo di sposarsi e tentare con essi un’avventura economica, decisero di partecipare alla gara e la vinsero. E cosi' Natale Fabrizio e Vincenzo Lapomarda si organizzarono per trasportare i tre orci dal Faro a Vieste. Si procurarono una grande barca idonea per la bisogna e si avviarono
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alla volta dell’isola di S. Eufemia. Incominciarono con il primo orcio. Partirono dal luogo in cui erano custoditi e, piano piano, lo trasportarono in direzione del molo dell’isola, ove era attraccata la barca. Il sentiero era accidentato, sicuramente piu' di adesso, tanto e' vero che, arrivati a meta' percorso, per un movimento sbagliato l’orcio si divincolo' dalla presa umana e ando' a sbattere su uno spuntone di roccia affiorante. Si crepo' e si ruppe all’istante in mille “pitazz”. Natale e Vincenzo non si persero d’animo. Ne restavano due e, comunque, l’esperienza del primo era servita di lezione. Si avviarono a prendere il secondo orcio. Decisero di studiare meglio il percorso stabilendo anche delle soste per riposarsi. Sicuramente il primo gli sfuggi' di mano anche per un calo di forze, in quanto gli orci erano enormi e pesantissimi, simili a quelli che si usavano durante l’impero romano per contenere olio o vino. Chi vuole puo' curiosare negli scavi adiacenti alla Chiesa di S. Maria di Merino. Alcuni, pur se interrati nel loro originario alloggiamento sono ancora in buono stato di conservazione. Ebbene, con la nuova strategia e la perizia del primo esperimento, i nostri riescono ad arrivare, con l’attenzione dovuta, fino all’imbarco. Non avevano dato peso, pero', al fatto che vi era un po’ di maretto. Infatti, nell’istante di poggiare l’orcio sulla barca, questa si abbasso' improvvisamente, facendo squilibrare nella manovra Natale e Vincenzo, si' da far sbattere il fondo dell’orcio sul muretto del molo. Anche il secondo orcio era andato. Lo sconforto si era impadronito dei due giovani, i quali vedevano tramontare la loro impresa economica e allontanarsi la data delle nozze. Restava il terzo orcio. Almeno quello dovevano portarlo in porto. Era diventata ormai una questione di onore, ma anche economica per pareggiare almeno le spese sostenute per la gara di aggiudicazione. Si rimisero al lavoro, meditando sui punti critici del percorso e del caricamento al molo. Questa volta l’operazione ando' liscia come l’olio e i due con la postura di capitani coraggiosi salparono dall’isola del faro alla volta della Banchina. Il viaggio duro' poco perche' il braccio di mare era breve e le condizioni meteo marine ottimali. Ma c’era quel po’ di maretto che fece fallire l’operazione del secondo orcio. I due, che non erano esperti marinai, ormai pensavano alla fase successiva, ossia al trasporto dell’orcio dalla Banchina al luogo di deposito a Vieste. Non avevano considerato la fase di scarico sul molo della Banchina, o meglio l’avevano sottovalutata. Sta di fatto che un’altra fase calante del maretto fece cozzare il terzo orcio sul muretto della Banchina. E cosi' anche il terzo orcio ando' a farsi benedire. Si vede che per loro il destino aveva disegnato un mestiere diverso. Sta di fatto che le rispettive fidanzate dovettero aspettare ancora a lungo prima di essere portate all’altare. Questa storia, vera naturalmente, mi e' stata raccontata dal figlio del giovane Natale, Tommaso
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